dal blog di Licia Cardillo: Vincenzo Sciamè: un siciliano di mare aperto

 


In una conversazione con Andrea Cammilleri, Marcello Sorgi riporta una definizione fulminante dello scrittore siciliano: "Io penso che uno si accorge di essere siciliano o comunque di essere siciliano in un certo modo quando esce dalla Sicilia. Mi ricordo una definizione, molto azzeccata secondo me di Vittorio Nisticò, il direttore degli anni ruggenti dell'Ora, che diceva che i siciliani si dividono in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto. Di scoglio sono quelli che se si allontanano dalla Sicilia, il secondo giorno cominciano ad avere delle crisi di astinenza, gli mancano una serie di cose, dalla pennichella alle melanzane, ai luoghi, e il terzo giorno devono assolutamente tornare. Di mare aperto sono quelli che fanno della loro sicilitudine una specie di patrimonio personale e lo utilizzano per vivere una vita diversa. In Sicilia ci tornano perché sta nel loro cuore, ma comunque scelgono di proiettarsi in un altro continente."

Vincenzo Sciamè è un siciliano di scoglio o di mare aperto? Io penso che sia di mare aperto per avere rischiato la certezza per l'incertezza, per avere avuto il coraggio d'inseguire, oltre lo stretto, il suo sogno.

Uomo di mare aperto, che si è portato dietro, però, un patrimonio di sicilitudine, una risorsa inesauribile che ha fatto di lui un pittore visionario, onirico che, potremmo dire con Hillman, "attinge allo strato profondo delle intuizioni.immediate" e dà il colore del magma ai suoi sogni. Un artista provocatorio, problematico che vuole portarci in territori sconosciuti, mettendo in moto i meccanismi mentali, la riflessione sul non senso della vita e, proponendoci come la Sfinge, enigmi ai quali bisogna dare risposte per andare oltre. E, davanti ai suoi quadri, le domande si avvitano e si diramano e ci trasportano in una terra di confine, sul crinale di una zona d'ombra, in una sorta di sospensione metafisica, molto più lontano di quanto l'autore abbia avuto intenzione di condurci.

Le sue opere oscillano tra lo scoglio e il mare - non Thàlassa, il mare materno dei Greci, ma il pélagos, la vasta e interminabile distesa del mare profondo, amaro, inquieto, multirisonante. - Si muovono tra un pontile ancorato alla terraferma e il mistero dell'inconoscibile, tra la geometria perfetta dello spazio e l'inquietudine dell'abisso.

Solo chi ha davanti a sé il limite può concepire l'idea dell'infinito. E il limite, per il siciliano, è la linea dell'orizzonte che protegge dai mostri spaventosi partoriti dalla paura in quel breve spazio di mare che ci separa dal Continente.

E come se Vincenzo Sciamè volesse semplificare la visione del mondo, ridurlo all'essenziale, sfrondarlo di tutto l'apparato che lo complica per coglierlo nella sua essenza, nella linearità geometrica, nella razionalità e collocarlo sul bordo del mistero, in una sorta di ambiguità che ci induce a chiederci che cosa ne è stato della vita, dell'uomo, del suo agire. Vengono fuori paesaggi sconfinati, collocati nelle regioni del sogno e della memoria, purificati dal fuoco che non ha lasciato cenere, ma pura energia e puro colore. Gli oggetti disseminati nello spazio sono colti dalla sensibilità dell'intelletto nella loro anima e caricati di significato interiore. Si ha l'impressione che essi, ancorati al reale siano dei pretesti, dei segni, dei simboli da cui partire per introdursi in un cosmo nel quale non è facile orientarsi. E verrebbe voglia di legare un filo agli oggetti per assicurarsi il ritorno, come Arianna nel Labirinto.

Il simbolismo di Vincenzo è un simbolismo di solitudine, le cui componenti sono il silenzio, la nostalgia, l'attesa, l'anelito verso qualcosa che sfugge. Credo che la sostanza intima sia nelle emozioni dell'esilio, in questa tensione verso l'altrove, in questo struggimento verso una patria lontana che ha confini molto più ampi di quanto la parola stessa suggerisca e ha a che fare con lo spazio e con il tempo.

Qualsiasi artista cerca di esorcizzare il tempo, con i mezzi che ha a disposizione, di catturalo, prenderlo al guinzaglio, fermarlo.

Potremmo dire con Brodskij che l'arte imita la morte, aspira infatti a rispecchiare quei pochi elementi dell'esistenza che trascendono la vita, imita il regno di cui la vita non può offrire alcuna nozione e tende ad esorcizzare quella che è la più lunga versione possibile del tempo.

Scriveva Rainer Maria Rilke: "La natura non è capace di raggiungerci, bisogna avere la forza di interpretarla e impegnarla, di tradurla in qualche misura nell'umano, per trarne a sé la minima parte." Vincenzo Sciamè con i mezzi che ha a disposizione cerca di farlo.

Lo spazio è lì aperto. Non c'è "la foce stretta dov'Ercule segnò li suoi riguardi", non ci sono le colonne d'Ercole, a introdurre nell'altrove. Qui l'altrove entra e invade prepotentemente lo spazio limitato del quale diventa sbocco naturale. Qui l'altrove è a portata di mano.

E' lì come un vastissimo palcoscenico, e su di esso il tempo, attraverso gli oggetti abbandonati, recita la sua parte: ieri, oggi, domani... Chissà se arriverà qualcuno a cambiare gli assetti, la disposizione. Chissà se arriverà Godot. Forse arriverà. E solo questione di tempo, perché qui lo spazio non è raggelato e paralizzato come quello di Beckett, ma è in divenire, vivo per qualcosa che si è appena concluso e per qualcos'altro che avverrà.

Per spiegare questa sensazione, vorrei esaminare un quadro che mi appartiene e che amo in modo particolare. Ha lo sfondo azzurro cupo, - una sorta di tenda senza confini o un sipario pronti ad aprirsi - sul quale spicca il semicerchio di una falce lattiginosa, di cui s'intravede l'altra metà, velata. Un pavimento rosso, il rosso vivo inconfondibile di Sciamè, con mattoni grandi che fuggono verso l'infinito. Una poltrona coperta da un telo mezzo bianco e mezzo nero. Non so perché mi sono innamorata di questo quadro, forse perché apre spazi verso l'altrove.

Un giorno, mio nipote Gaspare mi ha chiesto: "Dov'è andata la signora?" Un quadro vivo, quindi, che, nella sua staticità, suggerisce un evento precedente e un altro seguente a quello rappresentato. Qualcuno ha ricoperto con un telo la poltrona prima di andar via, qualcun altro, ritornando, lo toglierà. Così almeno nella fantasia del bambino che come tutti i bambini, è più vicino all'arte - e quindi al vero - di quanto si possa credere. E ancora il tempo con i suoi ritmi, le sue scansioni. ieri, oggi, domani...

"Dov'è andata la signora?" - ha chiesto Gaspare, senza averne visto traccia. Non è facile rispondere. E qui entra in gioco lo spazio: può essere andata dappertutto e da nessuna parte. Può avere percorso la piattaforma dove è la poltrona per andare a spiare al di là.

In fondo il quadro è una metafora della vita che oscilla tra il tempo e lo spazio, tra partenze e ritorni, velamenti e disvelamenti, maschere e follia, imposture e verità.

Non c'è dubbio che la signora o qualcun altro verrà a togliere il velo alla poltrona e le ridarà i colori che aveva prima dell'abbandono. E tutto ritornerà a vivere, in un'altra dimensione e con altri personaggi, perché anche se i personaggi fossero gli stessi, al ritorno sarebbero mutati

"Dov'è andata la signora?" E' andata dove potrebbe andare ognuno di noi. Dalla piattaforma - isola, che è il pavimento, si può prendere il volo e andare al di là di quella linea che si spalanca sull'abisso, sull'oceano, sul deserto, su una pianura infinita. E ancora una volta viene a soccorrermi uno scrittore Hector Bianciotti, esperto di spazi infiniti, come è la pianura argentina: "*Per tutto un inverno assistetti allo spettacolo della notte che si solleva all'orizzonte come una tenda che si riavvolge; vidi le ultime stelle sciogliersi nella luce che si diffondeva ovunque; vidi il sole mostrare la punta del naso arrossata - e a volte lo immaginavo mentre usciva da una cella profonda con il timore della sconfinata immensità davanti a sé, del vuoto che per gradi il suo avanzare avrebbe ampliato e diviso, imparziale in due metà. Ed ebbi la rivelazione delle distese che precedettero l'uomo, e tutt'intorno al mio cavallo si dispiegavano distanze, davanti ai miei occhi, ai miei fianchi, e da quel momento vi era solo un unico abisso piatto dietro di me. Quale punto dell'orizzonte poteva offrire la promessa di una fuga? Da dove raggiungere l'altrove? Ero io nel cuore dell'altrove e non c'era aldilà, non si può uscire da quello che è aperto senza direzione né misura. In quelle mattine d'infanzia a cavallo su Colorado, vidi dinanzi a me la terra in fuga e il cielo arretrare senza posa e, prendendo coscienza della mia cattività, sentii crescere fino all'insostenibile la necessità di un limite, di una frontiera, anche di un ostacolo. Da un infinito all'altro il vento passava." *

Lo spazio chiuso intricato - il labirinto - e lo spazio senza confini danno entrambi le vertigini e disorientano. In entrambi è facile perdere i punti di riferimento e perdersi. E' come se Sciamè ci mettesse davanti a degli specchi che moltiplicano lo spazio, e in alcune opere questo gioco è abbastanza evidente (L'altopiano del Caos - L'uomo solo) facendoci perdere la percezione del reale, come accade al Minotauro di Durenmatt. Il Minotauro, figlio di Pasifae, la figlia del Sole, metà uomo e metà toro, viene chiuso in un labirinto di specchi che riflettono la sua immagine, la sdoppiano, la moltiplicano, la riproducono all'infinito, fino a fargli perdere la percezione di se stesso, che in realtà è molto elementare e al limite della conoscenza, e a dargli l'illusione di trovarsi tra una folla di minotauri, ma è solo e il labirinto vanifica qualsiasi tentativo di fuga.

Ma spesso il labirinto è la proiezione del caos che ci portiamo dentro e nasce dalla frantumazione dell'io. I quadri di Sciamè sono pirandelliani, scenografici e teatrali.

Sul palcoscenico forse si aprirà il sipario, e non arriverà Godot, ma il Padre, la Madre, il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina - i sei personaggi in cerca d'autore - a confonderci con le loro ossessioni, le loro domande inquietanti, la loro teatralità assai vicina alla vita. Suggeriranno agli attori il timbro, le intonazioni, le espressioni più adatte. E questi proveranno all'infinito, atteggiando il volto, ripetendo le battute senza potere aderire alla vita.

Ma quel palcoscenico senza quinte, né scene, aperto al pubblico, è un invito a chiunque lo calchi, a rompere radicalmente con le finzioni, a lasciare cadere la maschera, a vivere la vita, non a rappresentarla, è un invito a danzare come il Minotauro, il proprio destino, a danzare la paura, la disperazione, la solitudine, ma anche la gioia e l'amore, perché la vita non è fissa, ma fluida come il mare e, come il mare, ha un ritmo imprevedibile, mescola pieno e vuoto, colpa e innocenza, felicità e dolore e non ha una forma, ma assume quella che ciascuno di noi riesce a darle.

 

 

                                                                                                                              Licia Cardillo